Il concetto di onore e reputazione ha da sempre un’importanza estremamente rilevante all’interno del contesto sociale in cui viviamo. Negli ultimi anni, poi, abbiamo assistito ad una parziale virtualizzazione di tale contesto sociale all'interno dei social networks, reti di relazioni sociali online. Ciò ha evidentemente comportato la necessità di adattare gli strumenti di cui l’ordinamento giuridico già disponeva alle mutate circostanze nonché la creazione di nuove forme di tutela per la così detta online reputation (si pensi ad esempio al "diritto all’oblio").
Se oramai non vi sono più dubbi sul fatto che post o commenti offensivi su Facebook (e sugli altri social) possano integrare il reato di diffamazione aggravata (art. 595 co. 3 c.p.p.), è altrettanto vero che una sentenza condanna a distanza di anni ed eventualmente un risarcimento del danno possono non fornire una tutela soddisfacente alla persona offesa.
È per questo che motivo che, da qualche tempo a questa parte il vero obiettivo nel difendersi dalla diffamazione online è diventato non tanto –o meglio non solo– la condanna bensì una pronta ed efficace azione inibitoria al fine di interrompere immediatamente la condotta offensiva ed eliminarne ogni traccia.
In tale ottica merita di essere segnalato il provvedimento con il quale il GIP presso il Tribunale di Reggio Emilia ha disposto il sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.) di due pagine Facebook sulle quali delle quali erano stati pubblicati a più riprese post asseritamente diffamatori nei confronti di una giornalista.
Il Giudice ha condivisibilmente rilevato, infatti, che la permanenza online delle frasi diffamatorie aggrava le conseguenze del reato commesso perché protrae la lesione alla reputazione potendo, i post, raggiungere sempre più persone.
A Facebook veniva così intimato l’oscuramento delle pagine incriminate. La società, tuttavia, avanzava istanza di revoca che però veniva rigettata; avverso tale rigetto proponeva appello, anch’esso respinto.
Il Tribunale di Reggio Emilia – sez. impugnazioni cautelari reali ha validato la tesi del GIP precisando che correttamente il sequestro era stato esteso non ai singoli post diffamatori ma all’intera pagina. Infatti proprio l’iniziale inadempimento da parte di Facebook all’oscuramento delle pagine aveva consentito all’indagato di pubblicare altri commenti ingiuriosi e minacciosi nei confronti della querelante.
Avv. Alberto Bernardi
Studio Legale Maisano
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