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LA NUOVA FRONTIERA DEGLI ATTI PERSECUTORI IN AMBITO LAVORATIVO: LO STALKING OCCUPAZIONALE

Aggiornamento: 5 mag 2023



La V sez. penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12827, depositata il 5 aprile 2022 – pronuncia che aprirà indubbiamente un interessante dibattito tra gli addetti ai lavori, in ragione della sua evidente portata innovativa – ha condannato il presidente di una s.r.l per il delitto di atti persecutori, per avere tramite reiterate minacce, ingenerato in diversi dipendenti un prolungato e duraturo stato d’ansia e paura, costringendoli così ad alterare le loro abitudini di vita. La pronuncia in questione, si atteggia da monito e da autorevole “bussola” per gli operatori del diritto, ma anche per il Parlamento (si vedrà più avanti il motivo), poiché ingloba il c.d. “mobbing” nell’alveo degli atti persecutori, reato previsto dall’art. 612 bis c.p.

Non si tratta di una interpretazione di poco valore o trascurabile, in quanto soltanto una pronuncia del 2020 – la n. 31273, sempre promanante dalla V sez. – aveva dato una lettura simile ai comportamenti mobbizzanti sui luoghi di lavoro, riconducendoli al reato di atti persecutori: “nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo dell’art. 612 bis c.p., laddove quella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati nella norma incriminatrice”. E ciò, si badi bene, a prescindere dal “contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria”.

Si tiene a specificare questo aspetto poiché, se si esclude questo precedente del 2020 e prima della sentenza n. 12827 che qui si sta commentando, il Supremo Collegio non aveva mai “inglobato” le condotte persecutorie che mirano ad emarginare il dipendente (c.d. mobbing) nel novero degli atti persecutori. Tutt’al più, diverse pronunce (soprattutto della VI sez. penale) avevano ricompreso i comportamenti mobbizzanti nell’alveo dell’art. 572 c.p., il quale punisce i maltrattamenti contro familiari o conviventi. L’aspetto controverso – ripreso e superato appositamente dalla pronuncia in esame – presupponeva che tra il datore di lavoro e il dipendente vi dovesse essere un qualsivoglia rapporto di natura para-familiare, cioè caratterizzato da relazioni intense ed abituali, soggezione di una parte nei confronti dell’altra ritenuta “forte”, consuetudini condivise e fiducia da parte del soggetto più debole. Tali caratteristiche sono difficilmente ravvisabili nella maggior parte dei contesti lavorativi; il risultato, assolutamente inaccettabile, era quello di far restare impunite le condotte dei datori di lavoro poste in essere in luoghi come banche, grandi aziende e pubblici uffici. Per non parlare del vulnus evidente rispetto all’art. 3 Cost, con il risultato paradossale di poter punire solo quelle condotte vessatorie poste in essere all’interno di aziende piccolissime, visto e considerato che nell’ambito di una multinazionale o all’interno di un ospedale pubblico, i rapporti tra dipendenti e dirigenti sono evidentemente spersonalizzati e superficiali.

La pronuncia in esame, lo si ribadisce, rappresenta una svolta di non poco conto, soprattutto alla luce del fatto che in Italia non esiste una norma del codice penale che punisca il mobbing (a differenza di quello che accade in Paesi limitrofi, si pensi all’esempio francese, su tutti). La V sez. penale, con la sentenza del 5 aprile, ha parlato per la prima volta di “Stalking occupazionale”: già si accennava sopra, infatti, come sia stato condannato per il reato di atti persecutori, il titolare di una società che “tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, aveva ingenerato nei dipendenti un duraturo stato d’ansia e di paura, così da costringerli ad alterare le loro abitudini di vita”. Altro rilievo – per così dire – tecnico che la Corte non manca di fare, attiene al dolo generico: è sufficiente questo per integrare il re

ato di stalking occupazionale – dunque la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia – mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico.

L’orientamento espresso dal Supremo Consesso non può che essere accolto con soddisfazione, ma nutrendo una duplice “speranza”, perlomeno nell’opinione di chi scrive: che rappresenti innanzitutto un leading case seguito dai giudici di merito (e di legittimità), i quali si trovano quotidianamente a dover giudicare fatti di tale natura. Inoltre, che possa fungere da monito per il Legislatore, il quale dovrebbe “metter mano” al codice penale ed inserire finalmente il mobbing nel novero dei reati espressamente previsti ed adeguatamente puniti (magari aggiungendo un comma ad hoc all’art 612 bis c.p., ovvero coniando un nuovissimo art. 612 ter c.p).


A cura di

Dott. Antonio Prete

Studio legale Maisano – Avvocati penalisti in Bologna



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